Nella nostra attività professionale, che da anni si concentra in modo sistematico nella rappresentanza e difesa dei padri separati, emergono con maggiore frequenza due criticità principali, per le quali la soluzione si ottiene solo rivolgendosi al tribunale ed attraverso un intervento del giudice:
- padri separati che non riescono a vedere i figli;
- padri separati che non riescono a versare il mantenimento, oppure continuano a pagare per figli ormai grandi.
Da un lato, quindi, la difficoltà per molti padri di mantenere un rapporto stabile e continuativo con i propri figli, spesso ostacolato da comportamenti materni o da disfunzioni nel sistema dei servizi sociali; dall’altro, il peso economico non più sostenibile di obblighi di mantenimento che, in troppi casi, si protraggono anche quando i figli, ormai adulti, si sottraggono consapevolmente a percorsi di autonomia e responsabilità.
In questo secondo contesto si colloca la recente e articolata pronuncia del Tribunale di Napoli – sentenza n. 4060/2025 – che ha accolto integralmente il ricorso presentato dal ns studio legale nell’interesse di un assistito, revocando l’assegno di mantenimento per la figlia maggiorenne e riducendo quello per il figlio ventitreenne. La decisione si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale sempre più consolidato, che definisce in modo rigoroso i presupposti per il mantenimento dei figli maggiorenni non economicamente autosufficienti.
La casistica vede inoltre sempre piu spesso ricorrere i casi in cui i due problemi sopra indicati si sommino: padri spearati che non vedono piu i figli maggiorenni e che sono costretti a proseguire nel versamento; la questione, apparentemente semplice, è invece foriera di un ricco dibattito giuridico, imperniato su un delicato bilanciamento tra il dovere genitoriale di cura e il principio – ormai pienamente affermato – dell’autoresponsabilità dei figli adulti e della inversione dell’onere della prova su questi ultimi.
L’obbligo di mantenimento e la maggiore età: non un automatismo
Come noto, ai sensi dell’art. 337-septies c.c., il giudice può disporre un assegno periodico in favore dei figli maggiorenni che non siano ancora indipendenti economicamente. Tuttavia, se è vero che il giudice non può stabilire un termine massimo all’obbligazione (es. una data età anagrafica dei figli) ciò non significa che tale diritto si protragga sine die, come correttamente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità.
In tal senso, la Corte di Cassazione ha chiarito che, una volta raggiunta la maggiore età, l’obbligo di mantenimento prosegue solo se il figlio dimostra:
di non essere ancora autosufficiente per cause non a lui imputabili;
di perseguire con serietà nel percorso formativo e/o lavorativo, non ancora ultimato o stabilizzato;
di non essersi sottratto, per scelta personale o trascuratezza, alle opportunità lavorative.
Il Tribunale di Napoli ha ribadito questi concetti, richiamando puntualmente i seguenti arresti giurisprudenziali:
Cass. 12952/2016 e Cass. 12477/2004: il mantenimento non può protrarsi oltre “ragionevoli limiti” e deve essere valutato con “rigore proporzionalmente crescente” in rapporto all’età del figlio;
Cass. 1830/2011: il diritto al mantenimento va riconosciuto solo nell’ambito di un serio percorso educativo e formativo, compatibile con le condizioni economiche dei genitori;
Cass. 18076/2014 e Cass. 10207/2019: la formazione deve essere coerente con le inclinazioni del figlio ma anche sostenibile economicamente per la famiglia;
Cass. 407/2007: l’indipendenza economica si misura in base alla possibilità di soddisfare autonomamente le primarie esigenze di vita, secondo i parametri dell’art. 36 Cost.;
Cass. 24498/2006: la costituzione di un nucleo familiare autonomo esclude di per sé il diritto al mantenimento.
Il principio di autoresponsabilità
La sentenza ha sottolineato, sulla scia della Cassazione civile, sez. I, 14 agosto 2020, come il diritto al mantenimento dei figli adulti non possa trasformarsi in una forma di parassitismo. In particolare, ha evidenziato che non può permanere in capo al genitore un obbligo eterno e incondizionato, se il figlio ha avuto le possibilità concrete per costruirsi un’autonomia economica ma non le ha colte per sua negligenza o volontaria inattività.
Questo approccio è coerente con un sistema giuridico che, pur nel rispetto dei doveri genitoriali, promuove la responsabilizzazione del soggetto adulto. Ne discende che il mantenimento non è più automatico con la semplice permanenza nel nucleo familiare del genitore collocatario o con la formale iscrizione a un corso di laurea senza un effettivo progredire del percorso formativo.
L’onere della prova: spetta al figlio
Il Tribunale partenopeo ha evidenziato con chiarezza anche un ulteriore principio, fondamentale soprattutto quando il genitore obbligato non ha informazioni precise sulla situazione dei figli: una volta raggiunta la maggiore età, è il figlio a dover provare di non essere in condizione di mantenersi. Secondo l’indirizzo tracciato da Cass. S.U. n. 13533/2001 e Cass. 20484/2008, ciò si giustifica con il principio di vicinanza della prova: il genitore non può e non deve essere onerato di dimostrare ciò che è nella piena disponibilità del figlio, quale il suo percorso di studi o l’eventuale attività lavorativa svolta.
Applicazione concreta: il caso deciso
Nel caso trattato, il Tribunale ha eliminato il diritto al mantenimento per la figlia ventottenne, ritenendo provato il suo ingresso nel mondo del lavoro, anche se non a tempo indeterminato, e il completamento degli studi. Per il figlio minore di ventiquattro anni, ancora formalmente studente, il contributo è invece stato ridotto a 200 euro mensili, ritenendosi congruo rispetto alle attuali condizioni reddituali del padre.
Di particolare interesse, l’accoglimento della domanda di revoca anche dell’assegno divorzile in favore della ex coniuge, per sopravvenuto peggioramento delle condizioni economiche dell’obbligato, in linea con il principio espresso da Cass. 22249/2007 e Cass. 14143/2014, secondo cui l’assegno può essere modificato o cessare in caso di variazione sostanziale e documentata della capacità reddituale, ed ogni decisione sul mantenimento viene adottata solo rebus sic stantibus, ovverosia tenendo conto della nuova situazione personale e reddituale rispetto al momento della precedente decisione.
Vale qui la pena di ricordare come vi siano differenze sostanziali, oltre che formali, tra l’assegno di mantenimento riconosciuto nella fase della separazione e l’assegno divorzile. Il primo ha natura essenzialmente assistenziale e mira a garantire il sostegno dell’ex coniuge nel periodo di transizione che segue la cessazione della convivenza, mantenendo il tenore di vita goduto durante il matrimonio. L’assegno divorzile, invece, si fonda su presupposti diversi e, secondo l’elaborazione della giurisprudenza di legittimità (Cass. S.U. 18287/2018), assume una funzione perequativo-compensativa: esso può essere riconosciuto solo in presenza di un effettivo squilibrio economico tra i coniugi, causato dalle scelte comuni di vita coniugale, e non è più collegato alla conservazione del tenore di vita durante al matrimonio, ma anch’esso al principio di autosufficienza ed autoresponsabilità del coniuge beneficiario.
Conclusioni
La sentenza in commento rappresenta un’applicazione rigorosa e aggiornata dei principi elaborati dalla Corte di Cassazione sul tema del mantenimento dei figli maggiorenni. Essa conferma che il diritto al mantenimento non può dirsi illimitato, né tanto meno svincolato da un serio impegno del figlio nella costruzione della propria autonomia economica, e che è legittimo chiedere ed ottenere una modifica delle condizioni di matenimento dei figli e della ex moglie a fronte di una nuova situazione personale, reddituale e familiare da parte del padre separato. In definitiva, la tutela della prole non può trasmodare in un perpetuo sacrificio a carico del genitore, e tantomeno in una ingiusta rendita di posizione per l’ex coniuge.
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massimilianogabrielli
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