Danni punitivi e giustizia riparativa nei processi per reati dolo, stragi e disastri: commento alla sentenza Corte d’Appello di Firenze, Sez. IV, 4 marzo 2025, n. 390
È tempo che il nostro Ordinamento e soprattutto i giudici chiamino le cose col loro nome, e riconoscano – esplicitamente – il carattere punitivo del risarcimento del danno aggravato, nei casi di gravissime violazioni del dovere di protezione della vita e dell’incolumità altrui.
La recentissima sentenza della Corte d’Appello di Firenze, n. 390/2025, interviene su un caso paradigmatico: il decesso di un paziente anziano all’interno di un reparto ospedaliero già segnato da una sequela di morti anomale, ricondotte alla condotta dolosa di un’infermiera, successivamente assolta in sede penale. Tuttavia, la responsabilità civile della struttura sanitaria è stata affermata in via definitiva per l’avvenuta somministrazione, al di fuori di ogni schema terapeutico, di farmaci anticoagulanti ad un paziente fragile, condotta di natura omicidiaria riconducibile alla mano di un soggetto rimasto ignoto alla giustizia, ma comunque tra il personale sanitario.
Il punto nevralgico ed innovativo della pronuncia fiorentina è però un altro, ed è quello della quantificazione del danno non patrimoniale. La Corte ha riformato la decisione del primo giudice che, pur riconoscendo la responsabilità dell’azienda sanitaria, aveva liquidato un risarcimento notevolmente inferiore ai minimi tabellari, con un bilanciamento tra elementi compensativi (l’età avanzata della vittima) e la “pluralità dei familiari richiedenti”.
Tale ragionamento – al netto delle discutibili proporzioni numeriche – ha il merito di riconoscere un principio fondamentale: la funzione riparativa integrale del risarcimento deve tenere conto dell’intero spettro del danno, incluse la componente emotiva, il turbamento psicologico e l’indignazione derivante dalla scoperta di un comportamento intenzionalmente lesivo e, dunque, anche in proporzione alla gravità delle condotte.
La Corte ha giustamente ricordato che le tabelle romane e milanesi nascono su eventi di responsabilità colposa e che, qualora il fatto lesivo sia doloso, deve trovare applicazione una personalizzazione in aumento del quantum debeatur. Ha così stabilito un incremento del 25% sul danno base, riconoscendo che la perdita parentale per via di un atto volontario genera un patema d’animo maggiore, per la vittima secondaria, rispetto a quella derivante da un errore sanitario o da semplice colpa. Non è una sanzione penale: è un risarcimento che tiene conto dell’interezza dell’offesa, ma nonostante la nomenclatura l’aggancio alla gravità della condotta illecita è stato affermato quale parametro, come da tempo sosteniamo nei procedimenti penali e civili connessi a disastri collettivi, stragi, omicidi plurimi morti bianche e violazioni sistemiche.
Il principio del necessario aggravamento del risarcimento in funzione della gravità della colpa o del dolo, tipicamente proprio del danno punitivo, istituto giuridico di origine statunitense.
Su questo punto la sentenza nega esplicitamente la natura punitiva del danno, ma segna indirettamente un passaggio di rilievo su quello che sosteniamo da decenni: quanto più elevata è l’intensità soggettiva della colpa – fino ad arrivare al dolo – tanto più deve risultare aggravata la risposta risarcitoria. Si delinea così un principio di proporzionalità inversa tra colpevolezza ed entità del ristoro, che si traduce in una vera e propria scala di moltiplicazione del danno base:
– colpa semplice: risarcimento tabellare (x1);
– colpa grave e colpa cosciente: risarcimento moltiplicato (x3);
– dolo eventuale: x4;
– dolo diretto e premeditazione: x5 e più.
Tale schema non è ispirato a logiche speculative, né ad una concezione mercantile del dolore: al contrario, risponde alla necessità sistemica di impedire che il risarcimento del danno diventi una voce di costo ordinaria per enti o imprese, i cui vertici possono cadere nella tentazione, per logica di profitto o raggiungimento degli obiettivi, di valutare in anticipo l’eventualità di causare lesioni o perdite umane con calcolo economico freddo e statistico sulla base delle tabelle compensative del danno. L’esperienza processuale ci ha insegnato che in molti disastri collettivi – ferroviari, industriali, ambientali e in genere da violazione delle norme prevenzionionali sui luoghi di lavoro– l’evento lesivo è stato preceduto da analisi sull’impatto economico dell’adeguamento produttivo alla sicurezza, e da precise scelte aziendali, nelle quali il rischio è stato considerato “conveniente”, poiché il costo potenziale del danno appariva, in proiezione, più basso del costo di prevenzione.
In questo senso, il danno punitivo assume una funzione dirompente e necessaria: spezza la logica dell’illecito efficiente, rivolgendosi alle aziende nel loro stesso linguaggio – quello economico – e costruisce una risposta non calcolabile a tavolino e non conveniente, perché maggiore è la consapevolezza ed accettazione del rischio e più pesante sarà il peso economico in seguito ad un incidente. È di fatto la funzione penale, in ambito civile, di carattere esemplare e prevenzione, che ha carattere afflittivo, ma in una prospettiva sistemica, di rieducazione e riequilibrio economico dell’illecito con la collettività.
Una battaglia di civiltà giuridica che a piccoli passi sta trovando affermazioni di principio, timidi riconoscimenti, affermazioni indirette come la sentenza in commento nell’ipotesi di reati dolosi, ma che continua a rivendicare il suo spazio anche nei processi per le morti bianche, le stragi e i disastri colposi. Del resto la stessa Corte di Appello riconosce il limite della tabella (non solo quella milanese, anche quella romana), in quanto “costituisce la sintesi di un monitoraggio di sentenze aventi ad oggetto fatti illeciti che sono, di regola, penalmente irrilevanti o comunque integrano gli estremi di un reato colposo.” In presenza di un atto consapevolmente lesivo, allora, l’adeguamento in aumento è da collegare in proporzione alla gravità del fatto.
Come legali dei familiari delle vittime in molteplici processi per stragi, disastri navali, ferroviari, industriali ed in ambiente di lavoro, sosteniamo da oltre vent’anni nelle aule un principio chiaro: quando la violazione delle regole di civile convivenza e tutela della vita si fa consapevole, reiterata, organizzata – come accaduto a Viareggio, nella strage di Rigopiano, o nei casi di morti bianche sistemiche – la risposta dello Stato e dei giudici civili e penali non può esaurirsi in un arido calcolo monetario, nella applicazione di tabelle al pari di un incidente stradale, ma deve farsi portatrice di un messaggio etico e collettivo.
La funzione “punitiva” del risarcimento non è alternativa a quella compensativa: la integra e la completa, nella misura in cui, se non vi è adeguato aggravamento in relazione alla gravità della condotta, l’effetto finale è che il soggetto responsabile di una scelta votata al risparmio sulla sicurezza trattiene un utile residuo dall’illecito, con violazione manifesta degli articoli 2, 3, 24 e 32 della Costituzione.
Rendere antieconomico per le imprese quelli che in dottrina vengono definiti “danni attesi”, è oggi un dovere costituzionale, con funzione deterrente al ripetersi dell’evento.
Questo vale tanto per i reati di natura dolosa quanto per le morti bianche sul lavoro, per i disastri ambientali, per le condotte sistemiche che offendono la dignità delle persone e i diritti delle vittime, ma anche per i c.d. “mass torts”, ossia i danni seriali che colpiscono un’ampia platea di soggetti con pregiudizi individualmente modesti ma perpetrati impunemente – come nel caso delle vessazioni contrattuali operate da grandi compagnie telefoniche o fornitrici di servizi essenziali.
In conclusione, la sentenza della Corte di Appello di Firenze segna un passo significativo: riconoscere che la qualità ed intensità del fatto lesivo incide sulla quantità del danno risarcibile è già una forma di giustizia evolutiva. Il danno punitivo, per quanto negato nella forma, si affaccia nella sostanza.
Come avvocati dei familiari delle vittime, continueremo a chiedere ai giudici ed alle Corti italiane che il risarcimento non sia solo una forma di ristoro patrimoniale, ma diventi veicolo di verità, memoria e responsabilità, e queste sentenze siano pronunciate non solo in nome del popolo italiano, ma soprattutto di chi ha perso tutto a causa di condotte dolose o spregiudicate che non devono ripetersi.
Avv. Massimiliano Gabrielli – Studio Legale Gabrielli, Roma, Viale Vaticano 45